Santa Maria de Busso: gli affreschi - L’affresco di San Francesco: una ipotesi storica

Ultima modifica 6 maggio 2020

Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati

Nella prima sezione della antica chiesa, presso la porta ricavata negli anni ‘60 nella muratura settentrionale, è parzialmente visibile sulla parete un affresco di un Santo cavaliere che ammazza il drago, con i tratti consueti della iconografia di San Giorgio nel periodo crociato. Nell’affresco mutilo sono ancora visibili il profilo destro del cavallo con il quarto posteriore, la coda e il resto del tronco; si scorgono la sella ed il sottopancia decorato con losanghe, una sottile groppiera verso la coda del cavallo, una parte delle redini ornate con un motivo a perline. Sulla coscia del posteriore destro del cavallo, presso la groppiera, è disegnato una sorta di marchio a fuoco, ovvero una grossa lettera G maiuscola, color marrone, inscritta in un cerchio giallo. La residua parte inferiore della figura del cavaliere lascia intravedere un lembo della tunica, una gamba ricoperta di un pantalone di maglia di ferro e uno stivaletto al polpaccio, col piede infilato in una staffa triangolare. Si riesce a vedere anche una parte della lancia del cavaliere, che infilza il drago attorcigliato in diverse volute, con la pelle marrone formata da grosse squame e segnata da una fascia rossa centrale, che la percorre per tutta la sua lunghezza.
Nello stesso locale, alla destra dell’ingresso vi sono i resti di un altro affresco molto rovinato, anch’esso dimezzato per l’apertura della porta negli anni ‘60. Dovrebbe trattarsi di una Dormitio Virginis di stile bizantino; in primo piano, si intravede in posizione centrale un santo monaco barbuto e fortemente stempiato, con una aureola color ambra, vestito con un saio marrone e un mantello chiaro che avvolge la parte inferiore del corpo. La testa è reclinata sulla sua destra e poggia sul lato corto del giaciglio, che mostra la parte bassa del corpo disteso della Vergine, della quale manca tutta la parte del busto e della testa. Alle spalle del santo monaco vi sono altre figure. Da destra verso sinistra, sembrano osservarlo due santi, anch’essi aureolati e posti alla sua stessa altezza. Su un registro più alto sono poste altre figure della composizione, purtroppo prive della parte superiore del corpo a causa del taglio del muro realizzato a fine Seicento. Sotto il livello del piano del giaciglio si intravedono i resti del contorno di aureole, appartenenti probabilmente a figure di santi genuflessi in adorazione.
Altri resti dell’originario corredo pittorico si intravedono nei conci di tufo asportati dalla originaria muratura della chiesa e sistemati nella muratura del voltino e del piedritto centrale. La facciata di uno di essi mostra il mezzobusto di un giovane imberbe e biondo, con una tunica beige, i capelli corti e pettinati, grandi occhi e labbra disegnate a chiavistello, quasi sorridenti. Sembra essere un maestro d’ascia o un carpentiere, poiché impugna un’ascia-martello con la mano sinistra e la tiene sollevata sopra la spalla, probabilmente nell’atto di inchiodare qualcosa. Dietro di lui appare un’altra figura di giovane, che dà le spalle al primo, con un vestito color carta da zucchero, i capelli biondi e lisci tagliati alla nuca. Il suo braccio destro è alzato, anch’egli colto nel bel mezzo di una attività lavorativa presso una struttura marrone, che per la inclinazione delle pennellate e delle striature nerastre delle ombre appare convessa e che potrebbe rappresentare lo scafo di una nave.
Un altro tufo mostra la parte superiore delle teste bionde di un gruppetto di tre persone, forse pellegrini. Si intravedono gli occhi di uno solo dei personaggi, grandi e molto simili a quelli dell’affresco del “maestro d’ascia”, che ha gli identici colori della tavolozza e del quale presumibilmente anche questo concio faceva parte.
Un altro concio di tufo presenta un bel viso regolare della Madre di Dio, con aureola color ocra. La bocca è a chiavistello, gli occhi disegnati con  un tratto accurato,  i capelli scuri, con striature alternate grigie e marroni. La posizione della iscrizione esegetica MA[TER] D[OMIN]I, disegnata presso il capo con una rotazione di quasi 90° verso destra, indica che nell’affresco originale la Vergine era raffigurata curva sulla culla scura, della quale si intravede il bordo, contenente il Bambino, del quale resta solo l’iscrizione esegetica [IC] [X]C. La mano aperta di un altro personaggio attira l’attenzione del fedele indicando il Bambino.
Oltre ai resti delle pitture sacre conservate in situ, un importantissimo reperto iconografico della  chiesa angioina di Sancta Maria de Busso o de Vetere è rappresentata dall’affresco di San Francesco, che fu fatto staccare e murare nella chiesa superiore dell’Immacolata dal vescovo Della Marra nel 1696, nella prima cappella alla destra dell’altare, ove è attualmente conservato.
In questo dipinto il Santo di Assisi è rappresentato barbuto, stante, in posizione frontale; attualmente della figura è visibile la parte superiore, dal bacino in su, ma molto probabilmente in origine era raffigurata intera a grandezza naturale e la parte inferiore è stata tagliata con l’asportazione del dipinto. L’ aureola color ocra appare diversa da quella delle altre figure sacre presenti nella antica chiesa, sia nella tonalità ambra più calda e accesa che nel bordo perlinato. Alla sinistra del capo appare la iscrizione esegetica FRAN/CISCVS in lettere maiuscole bianche. Il saio è di colore grigio-bluastro, molto simile e quasi confuso con il colore dello sfondo, ed è stretto alla vita da un cordone. Francesco tiene aperta la mano destra, in atteggiamento di monito e di richiamo dell’attenzione del fedele verso il libro, che mantiene appoggiato al corpo con la mano sinistra.
Rispetto alla consueta iconografia del XIII-XIV secolo, l’affresco presenta stranamente una sola stimmata sul dorso della mano sinistra. L’altra variazione di un certo rilievo è costituita dal libro che il santo tiene nella stessa mano. Nella iconografia francescana il libro generalmente raffigura la Regola dell’Ordine ed è tenuto chiuso; nel dipinto mottolese invece è aperto e riporta sulle due pagine la scritta «VIGILATE [E]T ORATE / DICIT D[OMI]NE» in caratteri maiuscoli protogotici, di color grigio scuro.

L’AFFRESCO DI SAN FRANCESCO: UNA IPOTESI STORICA
Questa iscrizione presente nell’affresco potrebbe essere riferita a un importante scontro religioso dottrinale tra la Chiesa romana e le fazioni francescane nel corso del XIII-XIV secolo.
Il libro potrebbe essere il Vangelo e il versetto ispirato a quanto riportato da Marco (14, 38), da Matteo (26, 41), da Luca (21,36) “Vigilate et orate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”.
L’altra possibile ipotesi è che il libro faccia riferimento a una Regola francescana, ovvero alla originaria cosiddetta “regola non bollata”, che venne emessa nel 1221 da Francesco. In essa, nel “Capitolo XXII – Ammonizione ai frati” , era infatti scritto “E sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il SIGNORE Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, e CHE DICE: VIGILATE DUNQUE E PREGATE IN OGNI TEMPO, affinché possiate sfuggire tutti i mali che accadranno e stare davanti al Figlio dell’uomo”.
Tale regola era stata approvata solo oralmente dal papa e non poté divenire regola ufficiale, non essendo mai stata riconosciuta da una bolla papale. Due anni dopo, san Francesco redasse un’altra versione della Regola in dodici capitoli, molto meno severa nei precetti della vita monastica, con una struttura dell’Ordine meno spontaneista e più organizzata. Fu questa la Regola definitiva che papa Onorio III approvò il 29 novembre 1223 e in essa non era più riportato quel precetto ai frati.
Alla morte di Francesco, scoppiò un’aspra contesa, soprattutto nella Francia meridionale e in Italia centrale, tra due fazioni francescane. Da una parte vi erano gli “spirituali”, che sceglievano la vita ascetica e mendicante tipica dell'Ordine ai suoi inizi e che si riconoscevano nella severa "Regola non bollata", senza alcuna deroga. Nell’altra fazione vi erano invece gli ortodossi "conventuali", che seguivano la “Regola bollata” riconosciuta dal papa e si organizzavano in comunità conventuali, praticando la cura delle anime.
Gli “Spirituali” avevano visto riconosciuto brevemente nel 1294 il loro ordine dei Pauperes heremitae durante i quattro mesi del pontificato di papa Celestino V, anch’egli di origine monacale e ascetica. Però il riconoscimento di Celestino fu immediatamente cancellato dal successore Bonifacio VIII.
Nei decenni successivi gli “Spirituali” furono colpiti dalle decisioni del Concilio di Lione del 1274, che vietò la formazione di nuove congregazioni religiose rispetto a quelle già autorizzate dal Concilio Lateranense IV. Dapprima Clemente V, poi Giovanni XXII imposero l’osservanza della regola “bollata” di San Francesco e inasprirono le persecuzioni, tanto da decretare la loro soppressione e infine scomunicare alcuni monaci spirituali, protetti dai sovrani angioini del Regno di Napoli, che si erano rifugiati in Sicilia. Gli esponenti del movimento spirituale che non intesero rispettare le disposizioni di Giovanni XXII, dettero così vita alla setta dei “fraticelli”.
Pertanto, se il versetto riportato nelle pagine del libro del San Francesco mottolese fa riferimento alla Regola francescana, non può che essere stato ispirato dalla fazione “spirituale”. D’altra parte, il motto VIGILATE ET ORATE era molto diffuso nelle sette del fondamentalismo cattolico tra il XIII e XIV secolo.
Bernardo Gui, che perseguì implacabilmente i Catari, gli Apostolici e i Spirituali francescani, nel suo famoso Manuale dell'inquisitore, scrivendo di Gherardo Segarelli fondatore degli Apostolici – una delle sette radicali che presentavano molti argomenti in comune con gli spirituali francescani – annotava: “Il loro modo iniziale di persuadere e di attrarre, soprattutto quando si mostrano in pubblico, è di solito siffatto: pronunciano cose che appaiono manifestamente degne di lode, così da attrarre e incantare gli uditori, e perciò dicono: VIGILATE E PREGATE che questo è buono per l’anima”.
Dopo la morte sul rogo del Segarelli, gli Apostolici furono capeggiati da fra’ Dolcino da Novara, che nel 1304 giunse addirittura ad occupare militarmente la Valsesia con la propria setta, tentando di realizzare una comunità che perseguisse gli ideali teorizzati. E il loro influsso arrivò anche nel Regno di Napoli, tanto che quaranta spirituali furono processati nel 1305 con l’accusa di “dolcinianesimo” .
In questo contesto di avvenimenti, è possibile che l’enigmatico affresco mottolese possa essere stato commissionato oppure eseguito da un simpatizzante della fazione radicale più vicina agli originari concetti della regola francescana, rappresentando un riflesso nella nostra comunità di quell’aspra contesa che travagliò lungamente il mondo francescano e cattolico.