La chiesa rupestre di San Nicola di Lamaderchia
Ultima modifica 6 aprile 2021
Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati
A sud-est di Mottola, in località Gorgone presso la masseria Lamaderchia, passa una antica via consolare che nel medioevo costituì una variante al percorso verso Taranto della antica via Appia, che si era impaludata nel tratto di pianura presso l’attuale Palagiano e non era praticabile. Lungo questa arteria stradale, costeggiata da insediamenti rupestri, sorge la chiesa ipogea di San Nicola, così denominata da Charles Diehl che nel 1894 per primo la descrisse, che in età medievale è stata oggetto della devozione degli abitanti del luogo, nonché dei Crociati e dei pellegrini che si recavano a Taranto e Brindisi dalle regioni interne per imbarcarsi verso la Terra Santa.
Secondo alcuni autori, la chiesa potrebbe essere stata scavata tra il VII ed il IX secolo, magari attraverso il riutilizzo di una precedente tomba a camera di età classica. Le prime notizie storiche che la riguardano sembrano risalire al 1081, allorquando Riccardo Senescalco, col consenso di Giovanni vescovo di Mottola, donò la preesistente "ecclesia Sancti Nicolai de Lama dicta Ria” all'Abbazia benedettina della SS. Trinità di Venosa, una fondazione monastica molto cara al casato degli Altavilla. Elementi storici più certi emergono solo successivamente, nel 1603, quando la chiesa ed il relativo terreno di pertinenza vennero venduti dai coniugi Donato Boccarello e Paulina Materdona di Taranto all'allora signore di Mottola, Marcantonio Caracciolo. Dallo stesso documento si evince che a nord della lama che ospita San Nicola c'erano altre due chiese, forse anch’esse rupestri, intitolate a San Salvatore e San Pietro, che sono state probabilmente distrutte dalla realizzazione nella seconda metà del ‘900 di una enorme cava di tufo a monte della ferrovia.
La chiesa si trova sul ciglio della lama ed è possibile accedervi attraverso scale ricavate nella roccia e adattate dalla struttura in ferro predisposta dalla Sovraintendenza. Una lunetta a doppia ghiera sormonta la porta della cripta e su di essa sono visibili tracce di decorazione dipinta di una figura nimbata a mezzo busto. Forse non si tratta dell’immagine del santo che dà il nome alla cripta: infatti, la figura ha una fronte ampia e stempiata molto simile a quella tradizionale di San Nicola, però i suoi capelli sembrano scuri; secondo alcuni studiosi potrebbe essere San Paolo o San Giovanni Crisostomo.
Una grande nicchia erosa occupa la facciata esterna a sinistra, mentre in alto a destra si nota una calotta affrescata e sovrastante una tomba ad arcosolio, resto di un insediamento funerario medievale che mostra anche le tracce di altre tombe. L'affresco mostra tre croci latine ed è stato interpretato da alcuni autori come una possibile Crocifissione di Cristo, risalente alla prima metà del IX secolo, in età iconoclasta.
All’interno, il santuario ipogeo è a pianta basilicale del tipo cruciforme inscritto, presenta un invaso a croce latina con sviluppo longitudinale, con una netta divisione tra l’aula o naos e il presbiterio o bema rialzato, che mostra i resti della recinzione con cancella, muretti che avevano una funzione di semi iconostasi. Il naos, ovvero lo spazio del tempio destinato ai fedeli, è diviso in tre navate di due campate, per mezzo di quattro massicci pilastri dai quali si dipartono archi a tutto sesto. La navata centrale ha il doppio della larghezza di quelle laterali; tutto intorno all'aula, lungo le pareti e alla base dei pilastri corrono i subsellia, sedili alti per lo più 40 cm. Nella zona del bema, alla navata centrale corrisponde la profonda rientranza dell'abside rettangolare, piatto sul fondo con resti di altare di tipo greco monolitico, mentre alle due navatelle laterali corrispondono absidiole a fondo piatto con altari di tipo latino addossati alla parete; nel rito greco queste piccole absidi ospitavano la prothesis per la conservazione delle particole sacre ed il diaconicon ove venivano depositati gli arredi liturgici. Il soffitto del bema, a differenza di quello dell’aula che è piatto e privo di decorazioni, presenta intagli litici a imitazione del tetto a doppia falda, della volta semicilindrica a tholos e a vela.
L’ elemento che caratterizza maggiormente l'invaso sacro è la ricchissima decorazione delle pareti laterali ornate con dodici stasidia, nicchie incavate nella roccia e con ghiera. La decorazione parietale della chiesa rupestre custodisce le maggiori testimonianze dell'arte sacra popolare pugliese, mostrando tutti i riflessi degli svariati influssi teologici e artistici di marca orientale e latina che sono confluiti in questa terra di confine tra oriente e occidente in quasi quattro secoli di Medioevo. Per la bellezza dei suoi affreschi è stata definita la Cappella Sistina della civiltà rupestre nel meridione d'Italia. Oltre a essere ripuliti una prima volta nel 1972 e restaurati nell'agosto del 1989, dopo aver subito il furto vandalico di parecchie teste delle icone murarie, essi sono stati oggetto di ulteriore restauro nell’ambito dei POR 2000-2006, Asse 2 – Misura 2.1 (Programma Integrato settoriale Habitat rupestre).
Il ciclo decorativo della chiesa è prevalentemente di tipo iconico, con la rappresentazione isolata dei santi venerati nel santuario, raffigurati con i principali attributi agiografici e con le iscrizioni esegetiche in lettere greche e latine che riportano i loro nomi in modo spesso contratto ed abbreviato, secondo l'uso del tempo.
I critici e gli storici dell'arte hanno fatto rilevare che, dal punto di vista stilistico, questi dipinti sono generalmente di matrice popolare; raramente infatti si registra una cifra stilistica colta e raffinata, come nella Deesis o nella Santa Parasceve. In essi confluiscono i canoni espressivi della spiritualità bizantina provenienti dai Balcani, dall'area cipriota-palestinese ed in generale del Mediterraneo orientale, nonché gli influssi culturali dell'area longobardo-beneventana, della Sicilia arabo-normanna e dell'arte benedettina. In particolare, per quanto riguarda la chiesa-cripta di San Nicola, nel corredo pittorico sono evidenti le ascendenze culturali legate all'ecumene bizantina nella Deesis e nelle rappresentazioni di Santa Parasceve, Santa Pelagia, San Basilio, del Santo anonimo con libro, delle due Vergini con Bambino. Possono ascriversi alla tradizione crociata, che vede il diffondersi del culto dei santi cari ai guerrieri e ai pellegrini, le icone di San Michele Arcangelo, San Giorgio, San Giuliano e del probabile San Teodoro; a questo filone appartengono anche il San Leonardo di Limoges, liberatore dei prigionieri, e il dittico con Sant'Elena e il vescovo, visibilmente collegato al pellegrinaggio verso i luoghi santi e alla difesa della Santa Croce. Nell'ambito devozionale latino e più prettamente locale si collocano le rappresentazioni di San Nicola e santo Stefano, Santa Lucia, San Lorenzo, le raffigurazioni del Principe degli Apostoli così come il dittico di san Pietro e san Leone Papa, la allegoria del Regno dei Cieli nella Parabola delle Vergini, la Dormizione di san Giovanni Evangelista.
La decorazione del tempietto rupestre registra, pertanto, la stratificazione dei principali temi espressivi della produzione pittorica dell'Italia Meridionale, coprendo circa cinque secoli di vita ed arte medioevale, dal IX al XIV secolo. Esso rappresenta, pertanto, la più importante “sala” nella "pinacoteca" mottolese di arte sacra popolare medioevale della Puglia.
Subito a sinistra dell'ingresso é rappresentato San Giuliano l'Ospitaliere che regge nella destra una lancia di cui si vede solo l'estremità superiore (probabile XIV secolo). È protagonista di una leggenda molto popolare nel Medioevo. Un cervo, da lui colpito a morte, gli predice che sarà l'assassino dei propri genitori. Atterrito fugge di casa e sposa una nobile, ma i genitori si mettono alla sua ricerca e giunti al castello dove vive vengono ospitati dalla donna, che li riconosce e cede loro il proprio letto nuziale per riposarsi. Al ritorno dalla caccia Giuliano trova occupato il proprio letto e, credendosi tradito, reagisce violentemente, uccidendo quelli che poi scoprirà essere i suoi genitori. Sconvolto dal misfatto si dedica alla penitenza e alla carità, e costruisce lungo la riva di un fiume una casa ospedaliera per viandanti. Una sera trasporta da una riva all'altra un lebbroso che risulterà essere Gesù, il quale gli assicura il perdono.
Nel sottarco che introduce alla navatella sinistra è affrescata Santa Lucia con il capo ornato da un diadema (fine XIII-inizio XIV secolo), che ha la mano sinistra a palmo aperto sul petto e nella destra la crocetta, simbolo del martirio che subì durante la persecuzione di Diocleziano. La giovane e ricca siracusana fu accusata dal fidanzato di essere cristiana. E' quasi sempre rappresentata con l'attributo del calice contenente i suoi occhi, che avrebbe strappato per allontanare da lei definitivamente il fidanzato.
Sempre in questo sottarco è effigiata Santa Pelagia in ricchi abiti bizantini e gioielli (fine XIII-inizio XIV secolo). Secondo il martirologio della Chiesa orientale l'appena quindicenne Pelagia, di nobile famiglia antiochena, si sarebbe suicidata per sfuggire ad una tentata violenza carnale. Nel culto occidentale, invece, era considerata una pubblica peccatrice, tanto bella e così adorna di gioielli da aver indotto il santo vescovo Nerone a vergognarsi del proprio zelo verso Dio, considerato molto inferiore a quello che mostrava Pelagia nell'adornarsi e nel piacere agli uomini. In seguito, una predicazione l'avrebbe indotta alla conversione e alla vita eremitica.
E' seguito da una Vergine con Bambino, che ricorda nel segno grafico una celebre madonna del Medioevo pugliese, quella Madonna di Ripalta che ancora oggi è intensamente venerata nella Daunia. L’affresco risale probabilmente alla fine XIII-inizio XIV secolo, così come gli altri affreschi custoditi negli stasidia della navatella sinistra.
Nella prima nicchia della parete sinistra è visibile San Pietro, che qui è rappresentato in atteggiamento benedicente, vestito con tunica scura e mantello drappeggiato sulla spalla sinistra, mentre tiene con la sinistra le chiavi del Regno dei Cieli ed un rotolo aperto dove si legge la dichiarazione da lui resa sulle rive del lago di Tiberiade “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. A sinistra in basso è graffito un guerriero, probabilmente un crociato.
E’ affiancato dal giovane diacono San Lorenzo, rappresentato con una lunga dalmatica, tipica veste liturgica a maniche corte portata dai diaconi, decorata a losanghe e perline. L’aureola è perlinata, e si nota sul capo la tonsura ecclesiastica della chierica diaconale. Con la sinistra, oltre a reggere la mappa, sostiene una specie di cofanetto che potrebbe essere la “borsa del tesoro”. Diacono della chiesa romana, secondo la tradizione venne arso vivo sulla graticola per non aver consegnato ai carnefici i supposti tesori della Chiesa, che per Lorenzo erano i poveri.
Segue la raffigurazione di San Basilio in abiti episcopali, che regge con entrambe le mani un libro posto di traverso sul petto. San Basilio detto “il Grande”, nato in Cappadocia, spese tutte le sue forze per sconfiggere le eresie e difendere i punti fondamentali della dottrina cattolica. Viene considerato il fondatore del monachesimo in Oriente.
Subito dopo troviamo l’affresco della Vergine con l’Anapeson, il Bambino insonne che prevedendo la morte non può addormentarsi. La Vergine, con il capo delicatamente inclinato verso il Figlio e con espressione di pietà per la sua sofferenza, siede su un trono decorato sopra un cuscino ricamato. Il suo manto presenta molteplici pieghe; su un lembo di stoffa è posato il Bimbo, avvolto in un lieve velo, benedicente con il rotolo stretto nella manina e con un grande nimbo crucifero. Lo sgabello ove la Vergine posa i piedi è decorato con foglie di acanto. La evoluzione iconografica di questo modello di Vergine è conosciuta in occidente sotto il nome di Madonna del Perpetuo Soccorso. Anche questo affresco è datato alla fine XIII-inizio XIV secolo.
Di fianco, vi è una prima raffigurazione di San Nicola, che benedice alla greca, con l'aureola gialla con cerchio rosso punteggiato di bianco. Sopra il manto rosso indossa l'omophorion bianco con croci nere, a forma di forcella. Nella mano sinistra regge un libro. La sua espressione è ascetica e severa. In basso l'iscrizione latina del committente Sarulo "MEME[N ]/TO D[OMI]NE / FAMU/LO TUO/ SARULO/ SACER[DOTE]" che viene tradotta “Ricordati o Signore del tuo servo, il sacerdote Sarulo”. Vescovo di Myra in Turchia, al tempo delle persecuzioni di Diocleziano soffrì il carcere per Cristo e partecipò al Concilio di Nicea contro la dottrina ariana. Seppellito a Myra e fatto oggetto di venerazione profonda, nel 1087 il suo corpo fu trafugato da marinai baresi e trasportato a Bari, dove è tuttora venerato.
Entrando nel bema dalla navatella sinistra, nel sottarco sono affrescati cinque medaglioni. In quello centrale è rappresentata un'aquila ad ali spiegate e negli altri quattro figure femminili a mezzo busto, con la mano destra protesa nel gesto dell'orante e la sinistra che regge una lampada. Le figure poste a sinistra hanno la lampada accesa e la iscrizione PRU/DENTES, le due di destra hanno la lampada spenta e sono indicate con il termine FATUE. Si tratta della rara trasposizione iconografica della parabola delle Vergini stolte e vergini prudenti, raccontata nel Vangelo secondo Matteo (25, 1-13). La datazione proposta è fine XIII-inizio XIV secolo; l'artista potrebbe essere lo stesso che ha affrescato i due Arcangeli nel bema della cripta e le icone di Santa Parasceve, Santa Pelagia e Santa Lucia.
Nel transetto, a sinistra, entro una ricca cornice decorata con gigli, troviamo l'immagine di San Michele Archistrategos, ovvero capo supremo delle schiere angeliche. L'arcangelo è rappresentato a figura intera, con l’abbigliamento imperiale. Il volto è tondeggiante, con occhi grandi e con lo sguardo rivolto verso destra, il capo adorno di un piccolo diadema e di una aureola perlinata, con due sottili nastri. Nell'insieme la rappresentazione esprime maestà, sicurezza e forza, e le ali spiegate rendono bene un senso di protezione. Stringe nella mano destra una lancia terminante a croce ed ha nella sinistra il keramion con una “croce di Sant’Eufemia”. L'affresco, di notevolissima fattura, è databile tra la fine del XIII-inizio XIV secolo.
Nella Visione di Santo Stefano, che è dipinta sull'altare latino decorato dell'absidiola sinistra, confluiscono gli elementi latini e bizantini dell'arte pugliese tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo. L'opera è ispirata al passo degli Atti degli Apostoli relativo al martirio del "protomartire", il primo seguace di Gesù a essere martirizzato violentemente per la sua testimonianza di fede. Cristo appare a Stefano per benedirlo ed accoglierlo nel Regno. Il santo, col volto proteso in intensa espressione, è in ginocchio ai piedi del Pantocratore nella posizione dell'offerente e viene accolto nel Regno. Il Redentore regge un libro in cui si legge E/GO / SV[M] / LV[X] / MV[N]/DI , "Io sono la luce del mondo". Sull'esterno dell'archeggiatura sono dipinti due gruppi di sei ali rosse di cherubini, tradizionale simbolo medievale dell'ingresso in Paradiso.
Nell'ampio abside centrale, di forma rettangolare e a fondo piatto, campeggia la monumentale e preziosa raffigurazione bizantina del Pantocrator in Deesis (seconda metà-fine XII secolo). Deesis in greco significa “preghiera”. Il Cristo è raffigurato nella semilunetta a mezzo busto, ha una grandezza molto maggiore e volutamente accentuata rispetto alle figure olosome della Vergine e del Precursore. Benedice con la mano destra e con la sinistra regge il libro aperto con la iscrizione in greco “Io sono la luce del mondo chi segue me non camminerà nelle tenebre”. Anche le iscrizioni esegetiche relative alle tre figure sacre sono in lettere greche. Il Cristo ha tunica blu e manto rosso, come pure la Vergine. Le due figure laterali della Vergine e San Giovanni Battista appaiono austere e severe. La separazione dei personaggi è sottolineata dall'uso di una larga fascia rossa che isola in un riquadro curvilineo il Pantocratore. Al di sotto dell'affresco vi è il moncone di un altare di tipo greco, discostato dal muro.
Nell'abside destra è raffigurata la Dormizione di San Giovanni Evangelista, rappresentato nel suo sarcofago come un vecchio con barba e capelli bianchi, con gli occhi e le mani rivolte in atto di contemplazione. Dalle nubi si vede uscire una mano benedicente alla greca, presso un altare coperto da un drappo rosso, sormontato da una croce. L'Evangelista, arrestato durante la persecuzione di Domiziano, fu esiliato nell'isola di Patmos, dove in seguito ritornò per morire di morte naturale, ormai ultracentenario. Anche quest'affresco, come diversi altri della chiesa, è ispirato da un celebre testo agiografico medievale, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, risalente al XIII secolo. Il testo narra che negli ultimi giorni di vita San Giovanni Evangelista, dopo una visione del Signore, fece scavare una fossa quadrata vicino all'altare. Discese poi nella fossa e stese le mani verso il cielo chiedendo con tutto il cuore di essere accolto alla mensa del Signore. Dopo aver pregato, fu avvolto da una luce folgorante e nessuno riuscì più a vederlo. Quando la luce scomparve la fossa era piena di "manna di san Giovanni". L'affresco, influenzato stilisticamente da motivi tipici della tarda fase comnena, sembra essere opera di un frescante greco-apulo, databile alla fine XIII-inizio XIV secolo.
Sotto l'affresco vi è un altare latino, addossato al muro e ai suoi piedi troviamo una piccola fossa, profonda 50 cm., che si ipotizza sia un piccolo fonte battesimale. Su entrambi i lati del pluteo che delimita il bema vi è la iscrizione "+ ALTARE S[ANC]TI IO[H]ANNEN bAbTIsTA".
Infine, nel presbiterio vi è una ulteriore rappresentazione di San Michele Arcangelo, anch'essa di concezione schiettamente bizantina. L'angelo è raffigurato di fianco come "guardiano del bema", d'aspetto severo nella sua giovanile bellezza, in completa armatura come un paladino alato, nell'atto di trafiggere con la lancia il drago e di schiacciarlo col piede. Col braccio sinistro sostiene il keramion decorato con un’altra croce di Sant’Eufemia, che questa volta presenta il monogramma "XC” (Christos in greco) e l'iscrizione latina "VI[N]C[IT]". La datazione risale tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo.
Nella navata destra segue un primo affresco raffigurante San Giorgio (fine XIII secolo-XIV). La leggenda narra che egli nacque da nobili genitori cristiani di Cappadocia, fu valoroso soldato e liberò la figlia di un re dal drago. Il suo culto, notevole sin dal IV secolo nell'Oriente bizantino, dove egli è per eccellenza il "grande martire" e il "trionfatore", si diffuse ben presto in Italia, soprattutto a Ravenna. Le Crociate ne consacrarono l'ulteriore diffusione, mentre numerosi ordini religiosi e cavalieri si posero sotto la sua guida, con una particolare devozione dei Benedettini. Si tratta di un santo tra i più rappresentati e preferiti nel repertorio iconografico rupestre e in questo dipinto si presenta su un cavallo bianco. La figura è ferma in posizione frontale, indossa un armatura a maglia metallica, regge una lancia con vessillo a tre punte nella mano destra e porta lo scudo a tracolla insieme ad un mantello rosso vivo. Il dipinto nell'insieme appare assai rozzo e di fattura piuttosto popolaresca. Si legge inoltre l'iscrizione deprecatoria, che riporta il nome del committente dell'affresco o del suo restauro: MEMENTO / D[OMI]NE FA/MVLO TVO / CRISPV/LO.
Nell'altra archeggiatura che segue sulla parete della navata destra vi è il dittico raffigurante San Pietro e San Leone Papa, entrambi in atteggiamento benedicente alla latina e con scritte esegetiche latine. Stilisticamente l'affresco sembra rifarsi alla tradizione pittorica della tarda maniera classicista che si afferma durante la dinastia imperiale dei Macedoni, ed è stato datato alla fine XII-inizio XIII secolo, con probabili ritocchi nel corso del XIII-XIV secolo. La figure sono rappresentate olosome, stanti e in posizione frontale. San Pietro ha in mano la croce astile di tradizione paleocristiana, il rotolo sigillato e le chiavi. Leone, invece, reca un libro semiaperto con copertina decorata, attributo di sapienza. Ai loro piedi vi è una iscrizione votiva con il nome del committente: ME/M [EN]TO / D[OMI]NE FA/MV/LO / TVO LEO/NE.
Tra questo dittico ed il seguente trova spazio, in basso, una immagine ex-voto devozionale con due piccole figure di donne in abiti medievali, con le candele accese.
Segue l’ altro dittico di Santa Elena e Santo Vescovo. La santa imperatrice porta una ricca corona e tiene nella mano destra una croce. Il suo abbigliamento è di tipo occidentale, privo delle consuete vesti imperiali. Il santo ignoto ha il capo scoperto, barba appuntita, con in mano un'asta, forse un pastorale, e veste il pallio tipico dei vescovi orientali. Il figlio Costantino Magno permise a Elena di attingere liberamente al tesoro imperiale per dispensare del bene. Pellegrina in Terra Santa, la tradizione la vuole artefice del ritrovamento della Croce e degli strumenti della Passione di Cristo. Tenendo conto di questa tradizione, il Vescovo ignoto potrebbe essere identificato con uno dei santi vescovi di Gerusalemme Cirillo, Ciriaco o Giacomo minore, mentre altri lo identificano con lo stesso San Nicola. La datazione proposta dagli studiosi attribuisce il dipinto alla fine del XII-inizio del XIII secolo.
Segue un altro San Giorgio, notevolmente diverso dal precedente, presente sulla stessa navata, per la sensazione di maggior movimento creata dall'affresco. La sua datazione sembra posteriore, ovvero risalente alla fine del XIII-XIV secolo. Il cavallo, col capo sproporzionato, è cavalcato agilmente dal giovane guerriero che con l'asta, tenuta nella mano destra, trafigge il drago. Il volto, dolce e sereno, è ornato dal nimbo perlinato.
Nel primo sottarco a sinistra dell'ingresso è visibile la testa di un santo monaco ricoperta da un cappuccio marrone triangolare, con nimbo perlinato. Si tratta di San Leonardo da Limoges, figlioccio del primo re cattolico dei Franchi Clodoveo e patrono dei prigionieri, il cui culto, strettamente collegato al fervore devozionale dei pellegrini ed alle vicende crociate, fu introdotto in Italia meridionale dai Normanni. Gli viene attribuito, tra l'altro, il miracolo della liberazione di uno dei maggiori capi normanni della I Crociata, il principe di Taranto Boemondo di Altavilla, detenuto dai Turchi in Antiochia nel 1103. L'affresco potrebbe essere stato realizzato tra fine XIII-inizio XIV secolo.
Di fronte ad esso, sempre nello stesso sottarco, appare raffigurato un altro Santo, anonimo per la perdita delle scritte esegetiche. La figura del santo guerriero, rappresentata con corazza a squame, lancia e scudo, è stata interpretata come un probabile San Teodoro, patrono delle armate bizantine. Stilisticamente il dipinto sembra appartenere alla corrente linearistica, databile alla fine del XII secolo.
Proseguendo, sulla facciata nord del pilastro campeggia un San Pietro di alta cifra stilistica, probabilmente opera del pittore della Deesis o della sua bottega e databile quindi alla metà del XII secolo. La figura dell'apostolo, che indossa tunica azzurra e manto verde con lumeggiature bianche, appare un po' sproporzionata, a causa dell'eccessiva altezza. Ai piedi dell'affresco vi sono dei graffiti raffiguranti un uomo a cavallo e dei lupi in atto di aggredire. Si tratta probabilmente di ex-voto, per celebrare pericoli scampati da pellegrini.
Sul pilastro di fronte al San Pietro è effigiato un Santo anonimo con libro, barba a punta e benedicente, da collocarsi cronologicamente nello stesso periodo del probabile San Teodoro. Le scritte esegetiche di questo santo erano in caratteri greci.
Continuando verso l'apertura principale del bema, nel secondo sottarco di destra è raffigurato quello che molti ritengono il più bell'affresco della civiltà rupestre dell'Italia meridionale. Si tratta della celebre e nobile Santa Parasceve, dal volto dolcissimo e delicato. Indossa il chitone e il manto che avvolge il capo di colore rosso, è rappresentata a figura intera e regge nella mano destra la crocetta del martirio mentre alza la sinistra a palma aperta. La sua esecuzione risale tra la fine del XIII-inizio del XIV secolo.
Sui pilastri del bema, negli spazi solitamente riservati alle immagini dei santi eponimi della chiesa, vi sono due affreschi palinsesti, rispettivamente con immagini di santo Stefano e San Nicola. Sul pilastro a sinistra troviamo le immagini del Protomartire Stefano. Dell'affresco più recente restano gli occhi, la fronte ed un frammento di iscrizione esegetica. La sua datazione può essere attribuita al XIV secolo, mentre l'affresco più antico con la figura del santo pare risalire al XII secolo.
Sul pilastro a destra vi è un affresco di San Nicola, risalente probabilmente alla fine XIII-inizio XIV secolo. Nella parte inferiore una caduta dell’intonaco evidenzia uno strato più antico, con un’altra immagine del santo. Questo dipinto è molto semplice, interpretato con lo stile linearistico tipico della metà dell'XI secolo. Si tratta con ogni probabilità di uno dei più antichi affreschi pugliesi che rappresentano il santo di Myra. Mentre lo si dipingeva, proprio di fronte al pilastro, nella parete rupestre occidentale della chiesa a sinistra dell’ingresso, veniva scavato uno gnomone, ovvero una finestrella circolare. Da allora questo foro, ogni anno durante gli equinozi di primavera e d’autunno - il 20 e il 21 marzo, il 22 e il 23 settembre – fa penetrare un fascio di luce nella chiesa, che nel pomeriggio va a illuminare la figura del Santo.
Si tratta di una ierofania, ovvero della creazione in un normale oggetto quotidiano di significati e attributi che appartengono al mondo del sacro. Tale manifestazione artificiale del sacro era molto ricercata e ricorrente nel mondo medievale, soprattutto in cattedrali e chiese costruite; in questo caso ritroviamo questo singolare fenomeno riprodotto in una chiesa rupestre, in un continuato omaggio devozionale al santo di Myra, che si protrae ininterrottamente da quasi mille anni.
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