La cappella della Madonna di Costantinopoli
Ultima modifica 6 maggio 2020
Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati
È posta ai piedi della collina a circa un chilometro dalle mura medievali della città, verso nord, sull’antichissima via istmica che portava dallo Jonio all’Adriatico, congiungendo Chiatona con Cozze di Conversano, della quale resta ancora un brevissimo tratto sterrato, antistante la cappella. Essa risale ai primi decenni del Cinquecento e viene citata per la prima volta della relatio ad limina di mons. Della Quadra del 1670. Anche se non evidenzia a prima vista particolari pregi architettonici e iconografici, contiene purtuttavia elementi storici e devozionali di estrema importanza.
L’esterno è anonimo, senza alcuna decorazione, con l’unica eccezione delle smussature negli angoli del prospetto principale. Le dimensioni della chiesetta, restaurata una ventina di anni fa, sono minime; la pianta è quadrata, con muratura a sacco. La volta piana è impostata su lunette perimetrali, poggianti su dodici peducci di varia forma, a punta di diamante, a cubetti, a modanature con fasce decorate a ovuli, a tronco di cono. Sulla parete di fondo, di fronte all’ingresso, vi sono i resti delle mensole che reggevano l’altare.
Nel trittico sopra l’altare sono raffigurate le immagini dei santi taumaturghi che in età moderna furono oggetto della maggiore devozione popolare contro il terribile flagello della peste, ovvero la Madonna di Costantinopoli posta tra i due santi Rocco e Sebastiano. La fattura del dipinto, di autore sconosciuto, è grossolana. La figura meglio composta appare quella di San Rocco, a sinistra della Vergine col Bambino, ritratto in giovane età e in abiti rinascimentali di una certa eleganza, con un sanrocchino verde sul mantello color ocra che richiama il colore del robbone sottostante, braghe rossastre – quella sinistra aperta per mostrare il bubbone – e calze bianche al ginocchio, con scarpe nere. Il santo è privo del tradizionale cappello a falde, con la mano sinistra si appoggia al lungo bordone, mentre con la destra indica la piaga nella coscia.
Ai piedi del trittico, su due ordini, è tracciata una scritta in gran parte illeggibile per le cadute dell’intonaco, della quale si riescono a decifrare le parole …TELANTIA FACTO FARE LI… PETE… seguite da un numero …528. La cifra, in numeri arabi, è sicuramente riferita alla terribile epidemia del 1528 che si diffuse per parecchi anni in tutto il Regno di Napoli e che in Puglia colpì soprattutto il sud est barese e la città di Monopoli. Pertanto, la data incompleta presente nell’affresco mottolese sembra indicarne la datazione al 1528 o agli anni immediatamente successivi.
La presenza di san Rocco, segnala questo dipinto come una delle primissime opere d’arte sacra collegate al culto del santo taumaturgo francese nella Puglia centrale, ove esso comincia ad apparire tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Il culto del santo, vissuto nella seconda metà del XIV secolo, giunse infatti nella regione proprio in quel periodo, grazie al dominio e all’influenza veneziana su alcuni importanti pugliesi, come Trani, Mola, Polignano, Monopoli, Brindisi e Otranto.
L'affresco mottolese evidenzia un elemento particolarmente importante e distintivo della prima iconografia rinascimentale riferita a san Rocco. In esso, infatti, appaiono tutti i segni distintivi della consueta rappresentazione di Rocco pellegrino e guaritore, fatta eccezione per il cane che in genere viene raffigurato accucciato ai piedi del santo e con la pagnotta in bocca. In realtà, in tutta Italia la produzione artistica sacra della seconda metà del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento rappresenta san Rocco con il cane molto sporadicamente. La presenza dell’animale diventa consueta solo dalla metà del XVI secolo in poi.
Per quanto riguarda la funzione della chiesetta, è da ricordare che tra la fine del Quattrocento ed il Cinquecento il culto dei santi taumaturghi protettori dal flagello delle pestilenze si diffuse in tantissimi centri pugliesi e vennero loro dedicate molte cappelle e chiese appositamente edificate. Questi edifici sacri, realizzati per essere utilizzati come luogo di culto da coloro che erano stati colpiti dalla malattia, generalmente venivano costruiti poco fuori dalle mura urbane. Infatti, i malati non potevano risiedere nelle città, per non diffondere il morbo. Il più delle volte queste chiese erano collegate ad altre strutture destinate ad ospitare gli ammalati, come lazzaretti, cimiteri, ospedali o baracche. Pertanto, anche la chiesetta mottolese, posta per l’appunto fuori dalle mura della città, potrebbe essere stata una di queste cappelle edificate per essere riservate al culto dei malati delle pestilenze. Da segnalare che la presenza di un “hospitale” a Mottola è riportata nella relatio ad limina del 1592 del vescovo Micheli.