Mottola e il feudalesimo

Ultima modifica 5 maggio 2020

Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati

La storia di Mottola, dall’età medievale agli albori dell’era contemporanea, è fortemente emblematica del freno rappresentato dal modello feudale allo sviluppo della società meridionale.
Il feudalesimo nasce nelle società “barbare” che si imposero con la dissoluzione politica e strutturale dell’Impero Romano. Il termine deriva dalla parola latina feudum, che vede la radice germanica fehu, che significa "bestiame", in composizione con od che vuol dire "possesso", quindi feh-od. Presso i popoli barbari e nomadi, il bestiame costituiva la ricchezza per eccellenza, una sorta di moneta universale con la quale venivano effettuati quasi tutti i pagamenti, tra i quali anche quelli per premiare i fedeli compagni d’arme del principe barbaro.
A partire dal VII secolo, nella Gallia merovingia, parecchi cortigiani dell’aristocrazia armata, in cambio dei propri servigi militari e in sostituzione del tradizionale pagamento in bestiame, sempre più spesso cominciarono a ricevere dai loro capi la concessione “in beneficio” dell’uso di terre  senza alcuna corresponsione di canone.
Questi feudatari non erano proprietari delle terre che erano state concesse, ma ne godevano i frutti solo a titolo di comodato. Non potevano venderle né trasmetterle agli eredi, e alla loro morte esse tornavano al signore, che ne disponeva come meglio credeva, magari concedendole ad altri vassalli. Però, ben presto, nell’impero carolingio, dapprima con Carlo il Calvo nell’877 e poi con l’imperatore Corrado II, nel 1037, fu consentita la loro trasmissione ereditaria. Inoltre, cominciarono a essere concessi ai feudatari alcuni importantissimi benefici, come le esenzioni fiscali, l’immunità di controlli da parte dell’autorità pubblica  e la “giurisdizione”, cioè la delega ad amministrare la giustizia, con il conseguente diritto di intascare le entrate delle multe e pene pecuniarie che venivano pagate dai sudditi.
In questa forma, definita “feudo di signoria”, il modello feudale si era affermato nei secoli X e XI in quasi tutta l’Europa, a seguito della dissoluzione dell’impero di Carlo Magno e della nascita del Sacro Romano Impero Germanico. Un’importante eccezione era però costituita dall’Italia meridionale, ove il suo attecchimento era impedito dalla presenza dell’impero bizantino, che manteneva una struttura statale fortemente accentrata e burocratica.
Il sud della penisola italica, pertanto, cominciò a “convertirsi” al feudalesimo solo quando venne strappato ai Bizantini da parte dei Normanni, nell’XI secolo. Paradossalmente, mentre nel nord e centro della penisola il modello feudale cominciava a declinare, nel Mezzogiorno cominciò la sua massima fioritura.
Infatti, tra XI e XII secolo in Italia centro-settentrionale il feudalesimo cedette progressivamente il passo alla rinascita delle città e all’affermarsi delle autonomie cittadine dei Comuni. Alle origini del rinnovamento post-feudale vi era la nascita prorompente di un nuovo ceto urbano emergente, che aveva letteralmente preso d’assalto le tradizionali strutture del potere feudale, reclamando la sua redistribuzione e puntando all’affermazione del potere dell’economia e del mercato rispetto al potere delle armi, che era stato tipico del feudalesimo.
Sulla spinta di questi cambiamenti si era verificato un forte ricambio sociale, accompagnato dalla rinascita demografica, economica e commerciale dei territori, oltre che dalla riaffermazione della centralità della città e delle autonomie locali. In tal modo, buona parte del centro-nord dell’Italia aveva vissuto un rinnovamento e una modernizzazione che avrebbero portato copiosi e positivi frutti, nei secoli successivi, alla storia nazionale.
Viceversa, nel sud Italia – come in Inghilterra – dilagava invece il feudalesimo imposto dai conquistatori normanni, vera e propria palla al piede per secoli allo sviluppo delle regioni meridionali. Restando sostanzialmente immutato e immutabile per tantissimi secoli, esso avrebbe perpetuato sino all’epilogo della Rivoluzione francese i propri modelli di organizzazione territoriale e le strutture di potere fortemente arretrate, basate sul conservatorismo, la ruralità, la sottomissione economica e la cristallizzazione del sottosviluppo, che sono alla base della atavica “questione meridionale”.
Nel sud normanno il feudo diventò ereditario e alla morte del feudatario esso passava automaticamente al figlio primogenito maschio, perché nel modello di feudo “franco”, prevalente nel mezzogiorno, non era permessa la trasmissione ereditaria per via femminile.
Con l’affermazione in età angioina del modello “franco” praticamente in tutta l’Italia meridionale, dalla fine del XIII secolo la sovranità feudale diventò sempre più arbitraria e opprimente nei confronti dei sudditi, attraverso una selva di obblighi e restrizioni e l’imposizione di odiose gabelle. Il cittadino era tartassato in tutti i modi possibili, tanto che divenne indispensabile l’autorizzazione del feudatario persino per poter cambiare lavoro, oppure residenza sia all’interno dello stesso feudo che da un feudo all’altro.
Nella concessione dei feudi veniva riaffermati sia i diritti dei proprietari privati preesistenti alla concessione del feudo  che i diritti del cosiddetto “demanio universale”, riguardante gli antichi diritti, le consuetudini e gli usi civici delle popolazioni, e preesistenti a qualsiasi forma di dominio, sia regale che feudale.Nonostante questa applicazione “garantista” in favore del popolo, e quindi dei più poveri, dei loro diritti di pascolare, cacciare, raccogliere legna e frutti selvatici, abbeverare, cuocere la calce, talvolta anche seminare, e così via discorrendo,  di fatto i feudatari li hanno sottratti per secoli alla popolazione mottolese attraverso continue usurpazioni.
In questa cornice di norme, usi, costumi e rapporti sociali, che restò praticamente immutabile anche nei successivi periodi aragonese e spagnolo, si consumò la parabola della decadenza di Mottola in età medievale e moderna. Il ciclo si invertì solo a partire dal periodo borbonico, soprattutto dopo il “decennio francese” che fece sentire anche al Mezzogiorno d’Italia il vento riformatore della “rivoluzione francese”. A seguito della legge del 2 agosto 1806 del governo di Giuseppe Bonaparte, che abolì nel Regno di Napoli la feudalità con tutte le sue attribuzioni, con la legge del 1 settembre 1806 e i successivi decreti dell’8 giugno 1807, del 3 dicembre 1808 e 10 marzo 1810 vennero emanate le norme per la quotizzazione dei demani, che dovevano finalmente distribuire la terra al popolo.
La terra venne quotizzata e distribuita in varie riprese, dalla prima metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, anche se questo non portò alla abolizione del latifondo. Infatti, prima dell’abolizione della feudalità i duchi di Martina, che avevano in proprietà il feudo di Mottola, possedevano circa 11 mila ettari di territorio mottolese; nel 1826, al termine delle ripartizioni delle terre feudali tra gli ex feudatari e l’Università di Mottola e dei loro tormentati percorsi giudiziari, agli ex feudatari Caracciolo restava comunque la proprietà piena ed assoluta di un latifondo di ben 9.923 ettari. Solo nel 1950 molte delle terre ducali, circa quattromila ettari, furono espropriate dalla riforma fondiaria e assegnate ai contadini mottolesi.