Il brigantaggio post-unitario nei boschi e nelle masserie

Ultima modifica 7 maggio 2020

Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati

Il territorio mottolese rappresentò  dopo il 1861 uno dei principali teatri in Puglia della sanguinosa guerriglia anti-piemontese che venne organizzata e diretta dagli sconfitti borbonici, conquistando l’onore delle cronache nei concitati anni dell’unità d’Italia.
La breve ma intensa stagione di lotta si protrasse dal 1861 al 1863 e vide tra i suoi maggiori protagonisti le bande borboniche “partigiane” di Pasquale Domenico Romano “Sergente”, di Carmine Crocco “Donatelli”, Antonio Locaso “Il capraro” e Rocco Chirichigno “Coppolone”.
Probabilmente alcuni dei principali briganti della guerriglia antisabauda godettero di importanti appoggi da parte delle masserie e degli agenti ducali. Placido De Sangro duca di Martina, proprietario del feudo di Mottola e San Basilio, alla caduta dei Borboni se ne era andato in esilio volontario a Parigi, insieme al fratello Nicola, come tanti altri nobili napoletani. I de’ Sangro erano strettamente legati ai Borboni, poiché il loro padre Riccardo – che aveva sposato l’ultima duchessa Caracciolo, Maria Argentina – era stato il braccio destro del re Franceschiello, talmente intimo col sovrano da ricevere l’estremo onore di averlo al suo fianco sul letto di morte, il 5 febbraio del 1861, durante quell’assedio di Gaeta che decretò la fine del regno borbonico.
Se non vi sono prove accertate di un coinvolgimento o favoreggiamento diretto dei duchi di Martina, è indubbio che le operazioni dei “partigiani” filoborbonici nei boschi di Mottola non vennero assolutamente contrastate dai loro agenti, fattori e massari. In tutto il territorio pugliese i briganti erano fortemente sostenuti dai “manutengoli” delle masserie rurali, come erano chiamati i fiancheggiatori che operavano per la protezione e il sostegno logistico delle bande.
I boschi e le masserie mottolesi dei duchi de’ Sangro costituirono comodi rifugi per i guerriglieri filo borbonici che si annidavano negli impenetrabili anfratti della Murgia, come venne più volte testimoniato dagli uomini del Sergente Romano che erano stati catturati dai piemontesi. La deposizione di Pietro Moramarco di Altamura, facente parte della banda di Marco De Palo di Terlizzi, infatti riportava che: “[…] il detto Sergente Francesco (sic!) Romano prese d’allora il comando come capo, facendosi chiamare il capitano Enrico La Morte. Ci trattenemmo colà (bosco di Martina)e quindi nel bosco di San Basile per ventidue o ventitre giorni pernottando ora a un punto delle macchie or a un altro, e mangiando di quei cibi che diversi individui conducevano, e che praticavano colà, i quali discorrevano segretamente col solo capo, discosti dalla compagnia per non farsi riconoscere…
Anche il ventenne brigante gioiese Donatantonio Bosco "Cinquecippone" confermava: “[…] in tutte le masserie di Noci, Mottola e Martina eravamo favoriti, e trovammo da mangiare; ed il nostro capitano Romano sempre conversava con la massima familiarità con quei massari, dei quali per verità ignoro i nomi”.
Un editto del Prefetto di Terra d’Otranto del 30 ottobre 1862 minacciava addirittura di chiudere e murare le masserie «che per la loro posizione topografica, o per l’indolo sospetto dei padroni e dei massari potessero servire di ricetto ai briganti»,  mentre per le altre prescriveva la riduzione delle scorte di foraggio e cibo per «la quantità strettamente necessaria alle persone che vi abitano».
Il debutto delle operazioni dei briganti in territorio di Mottola fu annunciato dal sequestro di persona del ricco proprietario alberobellese Francesco Martellotta, che nel maggio 1862 fu fatto prigioniero dalla banda del gioiese Pasquale Domenico Romano, già sergente del disciolto esercito borbonico, che usava i boschi del territorio mottolese tra i suoi rifugi preferiti. Romano riuscì a spuntare un riscatto di 2000 ducati che servirono a sostentare e equipaggiare gli uomini.
La guerra partigiana filoborbonica si macchiò molto spesso di sangue, che non fu quasi mai quello di soldati combattenti. L’8 giugno 1862 il “Sergente” fece uccidere nella masseria di Chiancarello il massaro Vincenzo Pugliese, dopo averlo derubato di denaro, vestiario e oggetti e “in presenza della moglie e dei figli di costui, sospesero il cadavere ad un annoso albero di farnia piantato nell’aja della masseria
Romano era spietato anche con i suoi uomini. Il 14 novembre 1862 fece fucilare a san Basilio i fratelli Antimo, Francesco e Salvatore Montanaro di Latiano. Essi avevano inseguito e fermato un altro giovane brigante che stava tentando di fuggire e abbandonare la banda, e per punirlo lo avevano ferito a una gamba. Romano decise di farli fucilare per imporre alla truppa la sua disciplina e dimostrare di essere l’unico in grado di decidere una punizione.
Un altro omicidio con la sua firma fu commesso il 20 dicembre 1862; il brigante fece ammazzare nella masseria Colombo il bovalano Giuseppe Passero, anche se in un biglietto appuntato al suo corpo lasciò scritto che era morto per disgrazia.
Il Sergente non era l’unico sanguinario bandito in circolazione in quegli anni nel territorio mottolese. Un altro cruento episodio si verificò a San Basilio, nell'ottobre del 1862. Questa volta fu la banda di Antonio Lo Caso, detto U’ Craparijd, ad ammazzare la guardia nazionale Antonio Semeraro e il guardiaboschi Alfonso D’Eredità.
Il Sergente Romano, dopo una riunione segreta, che si  tenne in una grotta del bosco Pianelle di Martina Franca, divenne il comandante di una temibile formazione di briganti composta da circa duecento uomini. Con essi Romano condusse tra maggio 1862 e gennaio 1863 una vera e propria guerra contro le forze piemontesi, assaltando persino i comuni di Alberobello, Grottaglie, Carovigno ed Erchie.
Egli venne scelto come capo dai più famosi comandanti del movimento armato filoborbonico pugliese, tra i quali Giuseppe Valente “Nenna Nenna“ di Carovigno, Francesco Monaco di Ceglie, Marco De Palo "La sfacciatella" di Terlizzi, Cosimo Mazzeo "Pizzichicchio" di San Marzano, Giuseppe Nicola La Veneziana "Figlio del Re" di Carovigno e altri ancora. Pertanto, tra il 1862 e il 1863 tutte queste bande armate circolavano spesso nel territorio di Mottola, come formazioni collaterali a quella del Sergente Romano.
Qualche volta le vittime dei terroristi filoborbonici non erano uomini, bensì incolpevoli animali. Come quando il 29 novembre del 1862 un centinaio di uomini delle bande di Pizzichicchio e del Figlio del Re effettuarono una strage di bufali al pascolo presso la masseria del Teologo Lemarangi, senz’altra motivazione che il puro gusto di uccidere.
Subito dopo furono intercettati dalla Guardia Nazionale. Nel conflitto a fuoco venne ferito un brigante, che venne trasportato dai compagni in fuga nella masseria di San Francesco, posta sulla strada di San Basilio, ove morì qualche ora dopo. Successivamente la 13° Compagnia del 10° Reggimento Fanteria, composta da settanta uomini agli ordini del capitano Candido Lodezzano, raggiunse i briganti e li sorprese nel loro rifugio della gravina di Dolcemorso. Durante la carica alla baionetta dei soldati perse la vita il brigante Domenico Nuzzi di Palagianello, mentre molti altri restarono feriti.
Gli episodi di violenza che ebbero come teatro il territorio mottolese continuarono anche nel 1863. Nell’estate una violenta incursione della banda del brigante laertino Francesco Perrone “Chiappino” devastò la masseria San Domenico presso San Basilio. Inoltre, nel territorio di Mottola, dopo una grave disfatta nei pressi di Montepeloso, si era rifugiata anche la banda del brigante lucano Rocco Crichigno “Coppolone”, di Montescaglioso. Egli venne ospitato da Giuseppe Sciscio “Dispreziosa”  e da Vito Galatone, guardiano filo borbonico della masseria Chiancarello, che in passato avevano più volte nascosto in questa masseria Pizzichicchio, la cui banda aveva raggiunto le cinquanta unità.
Il bandito lucano il successivo 7 settembre sequestrò nella masseria San Francesco Giuseppe Antonio D’Onghia, figlio dell’esattore comunale di Mottola. Per il suo riscatto furono chiesti «1000 ducati, due revolver e un due colpe nuove, dodici scatoli di tubbi militari e nove paesane, dieci camici…». Inoltre, lo stesso giorno nella vicina masseria Belvedere sequestrò Onofrio D’Onghia e anche per lui furono richiesti mille ducati di riscatto.
Dopo un’altra incursione alla masseria Le Grotte, il bandito si allontanò da Mottola; i due sequestrati furono nascosti e tenuti prigionieri per una settimana nella gravina di Montecamplo, in territorio di Castellaneta, venendo quindi rilasciati solo dopo il pagamento dei riscatti.
Anche se il territorio aveva ospitato molte bande filoborboniche che avevano trovato rifugio nei suoi fitti e impenetrabili boschi, la presenza del brigantaggio nel territorio mottolese sembra essere stata di natura prevalentemente esterna, con un coinvolgimento della popolazione tutto sommato limitato.
Nonostante la attività dei “manutengoli” mottolesi e la diffusa rete di coperture e complicità, in realtà venne celebrato un solo processo per attività di fiancheggiamento di bande di briganti effettuate nel territorio mottolese tra il 1862 e il 1863, e riguardò il massaro Giuseppe Oronzo de Leonardis della masseria Pandaro.
Negli elenchi giudiziari dei briganti non figura alcun nativo mottolese. Solo due forestieri che abitavano nel territorio comunale ebbero parte attiva nelle bande. Uno era il contadino Giuseppe Catucci, che faceva parte della banda minore di U’ Craparijd, originario di Massafra, l’altro Donato Notarnicola “il mottolese”, nativo di Noci.
Al termine dell'epopea brigantesca altri processi vennero celebrati per episodi di violenza che erano stati consumati nel territorio comunale di Mottola nel periodo postunitario. Uno di questi vide alla sbarra nel 1863 Giorgio Palmisano, Angelo Tritto ed altri briganti, che erano accusati di assassinio premeditato di un presunto informatore delle forze dell'ordine. Un altro ancora, nel 1864, riguardò la banda di Pizzichicchio, accusata di associazione di malfattori armati e resistenza violenta e vie di fatto contro la forza pubblica. Infine l'ultimo, nel 1865, giudicò Arcangelo Cristella, Giovanni Magistri ed altri briganti accusati di grassazione di oggetti e monete.