Gli allevamenti di San Basilio a fine '700 nella descrizione di Carlo Ulisse de Salis Marschlins

Ultima modifica 13 maggio 2020

Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati

Il duca Francesco III Caracciolo si trasferì nel 1770 da Napoli a Martina e San Basilio per seguire personalmente la conduzione del feudo. Durante il suo governo del feudo investì circa 55 mila ducati in acquisti e miglioramenti fondiari, mettendo a coltura nuove terre vergini e costruendo infrastrutture di servizio per le comunità rurali, soprattutto nel territorio di Mottola.
Egli  rappresentò l’incarnazione ideale di quanto richiedevano n quegli anni i maggiori esponenti partenopei del più avanzato pensiero economico, ovvero che le sterminate aziende agricole latifondiste venissero gestite in modo diverso dal passato. Domenico Grimaldi nel 1770 esortava i baroni ad imitare «la moda de’ signori inglesi nel coltivare e far valere i propri terreni», invece di affollarsi «a cinguettare» nella capitale. Giuseppe Palmieri, nel 1787 lanciava un accorato appello agli aristocratici: “I tribunali risuonano di accuse contro di voi […] Io vi assegno un nuovo tribunale per giustificarvi, il più pronto e il più sicuro ne' suoi decreti. Questo sarà formato da' vostri feudi. Trasferitevi immantinente ne' medesimi. La migliorazione de' terreni, la vita tranquilla, comoda e felice degli abitanti mi forniranno pruove senza replica e formeranno l'intiera vostra giustificazione. Gl'istessi fatti vi serviranno di un unico titolo per ottenere le chiavi, le fasce e gli onori. Voi, nel primiero vostro istituto, fuste già compagni del sovrano nel difender la nazione; cooperate ora meco, con un destino egualmente glorioso, a felicitarla. Ecco la corte che da voi desidero e mi sarà più grata di qualunque omaggio
La scelta innovativa del duca Francesco III di vivere nel suo feudo venne tramandata ai posteri dal resoconto di Carlo Ulisse de Salis Marschlins (1762-1818 - nella foto), illustre viaggiatore svizzero che visitò nel 1789 la residenza ducale di San Basilio, dando alle stampe quattro anni dopo un’opera che divenne molto famosa al suo tempo, "Reisen in verschiedene Provinzen des Königreichs Neapel" (Viaggio attraverso varie province del Regno di Napoli).
Il giovane aristocratico svizzero, imprenditore e naturalista, membro influente della Dieta dei Cantoni e della Società Economica Svizzera, effettuò un lungo viaggio di analisi e studio nell’Italia meridionale alla ricerca di best practices riguardanti le innovazioni produttive delle grandi aziende agrarie, descrivendo quindi tutte le interessanti novità che aveva osservato nel suo grand tour nel Regno di Napoli.
Egli, quindi, ci ha restituito una testimonianza diretta del rilevante grado di sviluppo e della qualificazione produttiva che erano stati raggiunti dalla azienda ducale mottolese nel corso del Settecento, soprattutto per quanto riguarda l’allevamento del bestiame.

LE PECORE
Un importante "monumento" dell'attività pastorale della azienda ducale di San Basilio è rappresentato dallo Jazzo Burgensatico, della capacità di circa duemila capi ovini, posto a circa un chilometro ad ovest del Casino del Duca, che fu costruito per volontà dei Caracciolo tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo.  Così lo descrisse l’ospite svizzero:
“[…]  Poco distante dall'ovile, ci venne incontro il capo dei pastori, un vecchio venerabile che ci diede il benvenuto stringendoci la mano, e poi ci condusse prima alla cascina dove si fanno i piccoli formaggi di latte di pecore e di capre, e poi ai fabbricati o grandi stalle in pietra viva, situate tutte sovra una stessa fila.
La masseria è così disposta: sul davanti vi è una grande chiusura divisa in cinque parti eguali: nella prima divisione e nella stalla dipendente stanno le pecore gravide, nella seconda gli agnelli da latte, nella terza e nella quarta le pecore di due anni, e nella quinta gli agnelli che hanno finito di succhiare. Passammo in rivista le pecore di questi cinque compartimenti: erano tutte della razza bianca, chiamate “pecore gentili”, dalla lana molto fina; e il capo pastore m'informò che il loro numero raggiungeva i 3000 capi. Il Duca non vuole pecore nere, per la cattiva qualità della loro lana. Parecchi cani da pastore, di razza pura, dal pelo lungo e bianco, accompagnano e guardano il gregge, e mi si assicurò che valgono un tesoro per la loro intrepidezza e le altre eccellenti loro qualità.
Passammo dopo a visitare l'altra cascina dove si lavora il latte, giudiziosamente sistemata, la quale consta di uno stanzone ad archi, oblungo, che ha dai due lati quattro piccole aperture che mettono da ambo le parti in cortili attigui. All'ora della mungitura del latte, si spingono le pecore in uno di questi cortili, e si fanno passare successivamente ad una ad una attraverso queste aperture, dove un uomo le munge al passaggio, facendole uscire dall'apertura di contro nell'altro cortile. C'è poi un altro vasto locale per la tosatura delle pecore.
Tutti questi fabbricati sono stati costruiti dal Duca, contrariamente alle abitudini del paese, poiché si lasciano qui gli armenti all'aperto durante l'intero anno; e salvo qualche capanna per il lavoro del latte, tutto il resto vien fatto costantemente all'aperto.
Quest'abitudine ha procurato danni non indifferenti ai varai proprietaria di bestiame: in quest'ultimo rigidissimo inverno sono morte nelle provincie orientali del Regno più che 40,000 pecore, mentre il Duca di Martina, grazie alle sue intelligenti innovazioni, non ne ha perduta neppur una. Sento però che adesso molti proprietari intendono seguire il suo esempio
[…]

I CAVALLI DEL DUCA
L’interesse del duca di Martina per l’allevamento equino di qualità non era una novità nella famiglia Caracciolo, poiché una delle più importanti opere italiane di età moderna sull’allevamento dei cavalli era stata scritta proprio da un antenato di Francesco.
Pasquale Caracciolo, sesto dei dieci figli del secondo duca di Martina, Giambattista, vissuto nella prima metà del ‘500, raccolse un’enorme quantità di notizie nelle mille pagine dell’opera La gloria del cavallo libri X, edita a Venezia nel 1566. Egli descrisse i cavalli celebri dell’antichità, la presenza del nobile animale nella mitologia e nella cavalleria, gli aspetti positivi e negativi dell'allevamento, le tecniche di addestramento, i mantelli e le razze, la cura delle loro malattie. Quell’opera enciclopedica dell’antenato del duca di Martina era molto conosciuta e apprezzata in età moderna, tanto che si ritiene possa aver ispirato persino il celebre filosofo francese Michel de Montaigne,  contemporaneo di Pasquale Caracciolo, nella stesura del capitolo dedicato ai destrieri dei suoi Saggi.
Quando il duca Francesco I aveva acquistato il feudo di Mottola, nel 1652, aveva trovato solo una trentina tra cavalli e asini. Già ai primi del Settecento gli allevamenti equini del duca di Martina contavano 100 cavalli e puledri e 150 giumente. Nel 1716 si era arrivati a 65 giumente e 408 puledri, e sicuramente nella seconda metà del secolo numeri e qualità erano ancora cresciuti, tanto da ispirare la prosa entusiasta di Carlo Ulisse de Salis Marschlins.
[…] Ci vennero presentate tre mandrie differenti di cavalli, ciascuna divisa in due sezioni: la prima contenente i cavalli interi, l'altra i puledri. Esaminammo dapprima le giumente di razza inferiore, ovverosia lo scarto delle razze, tenute esclusivamente per la produzione dei muli, e tre asini d'imponente grandezza e di manto eccezionale, che il Duca tiene espressamente, e che gli costano 300 ducati l'uno. Questi asini vengono custoditi continuamente in istalla, eccetto che nella stagione della monta.
[…] Dalle giumente passammo ad esaminare i muli, poi le giumente di secondo ordine con i relativi puledri, ed infine le giumente scelte, le quali sono di una bellezza sorprendente, grandi, e per lo più di un mantello o sauro scuro, o sauro dorato. Il più fine conoscitore non troverebbe in esse altra pecca se non le orecchie un poco troppo distanti fra di loro. I cavalli del Duca sono pregiatissimi, specialmente per la loro forza, la loro gagliardia e la singolare bontà delle loro unghie; qualità queste da attribuirsi probabilmente alla natura forte e secca dei pascoli, ed al lasciare gli animali continuamente all'aperto in ogni stagione, senza mai rinchiuderli nelle stalle.
I puledri tenuti per uso privato, vengono domati ai tre anni, ed i cavalli che non servono per uso del Duca, sono venduti verso i quattro anni, o alla fiera di Gravina o a quella di Salerno, dove il prezzo corrente di una buona pariglia di cavalli di quattro anni, senza nessun difetto, varia dai 150 ai 200 ducati. Sino a poco tempo addietro, nessun cavallo veniva castrato, servendo gli stalloni sia pel tiro, sia pel cavalcare, e lasciando le giumente esclusivamente per le razze. Adesso però si usa altrimenti, e la cavalleria sarà fornita d'ora in poi di giumente e di cavalli castrati
[…]

LE VACCHE PODOLICHE
Fino ad alcuni decenni fa i boschi di San Basilio rappresentavano l'habitat preferito dell'ultima e consistente mandria di proprietà ducale di bovini della razza autoctona Podolica, della quale si è temuto a lungo la estinzione. Originari delle steppe asiatiche della Podolia, una regione dell’attuale Crimea, pare che questi bovini siano giunti in Italia al tempo delle invasioni degli Unni; le femmine hanno manto grigio e grandi corna a lira, i maschi manto scuro e le corna a mezzaluna. I bovini del ceppo pugliese, affine a quelli lucano, calabrese, campano e molisano, sino agli anni '40 erano praticamente gli unici allevati in tutta la Puglia.
Non essendo una razza specializzata, essa veniva usata sia per il lavoro nei campi che per la produzione di carne e latte. La Podolica pugliese è una razza rustica e facilmente adattabile ai magri ed aridi pascoli della Murgia, essendo gli animali alimentati al pascolo brado unicamente dalle sapide essenze vegetali di questa terra arida ma generosa. Purtuttavia,  la mancata specializzazione in un settore produttivo ha decretato inesorabilmente nella seconda metà del secolo scorso la sua sostituzione, pressoché totale, con le razze Bruna Alpina e Frisona, che producono molto più latte e sono oggi dominanti negli allevamenti zootecnici pugliesi.
Solo negli ultimi decenni vi è stata nella regione una buona ripresa dell’allevamento della Podolica nelle zone del Gargano, nel nord Salento e nelle Murge tarantine. A Mottola, essendo definitivamente scomparsa la storica mandria ducale, l’allevamento della Podolica continua presso grandi aziende private, come Masseria Colombo e Masseria Sant’Angelo di Piccoli,  sostenuta soprattutto dalla grande qualità dei provoloni prodotti con il suo latte, con un notevole tenore di grasso e caseina, ottimo per la produzione di latticini che raggiungono una altissima quotazione sul mercato agroalimentare.
Anche la carne, dal gusto intenso, saporito e leggermente dolciastro, grazie alla alimentazione naturale, tende a essere sempre più apprezzata in una fascia di mercato alta, per la sua qualità e l’elevato valore salutistico.
Questa è la descrizione della grande mandria bovina ducale, che ci è stata tramandata dalle pagine di de Salis Marschlins:
 […] Tre altre categorie di bestiame bovino ci vennero poi fatte vedere: la prima comprendeva le vacche di miglior qualità, la seconda le bestie più scadenti, e la terza i vitelli.
Io, pur essendo cittadino svizzero, devo confessare che non potevo ammirare di più la bellezza di questi animali. Le vacche sono generalmente grigie, con piccole corna, piedi corti e carcassa lunga; i tori sono di un bellissimo colore oscuro e di statura imponente come non ho mai visto. Dalla piccola testa dagli occhi lucenti, pende la enorme giogaia dalla gola sino a terra; e le parti posteriori, suscitando il ricordo delle fattezze del leone, mi rammentavano il Toro Farnese, giudicato ingiustamente da alcuni critici come troppo somigliante al re della foresta. Non trovo da osservare in questi tori, se non un'eccessiva pesantezza di movimenti; ma bisogna dire anche, che raramente ho visto animali di mole così maestosa. Questo bestiame rimane all'aperto durante tutto l'anno, sotto qualsiasi intemperie.
Non si produce più burro di quanto occorra per il consumo della famiglia, essendo questo cibo poco adottato in tutto il Regno, dove si consuma e si gusta a preferenza l'olio. Del rimanente del latte si fa formaggio, la cui migliore qualità viene chiamata cacio cavallo, ed è tenuto in gran pregio, quantunque a me sembrasse asciutto, e mi desse al palato come un senso di sego. Buono del resto il latte, il burro, ed altre merci di questo genere, fra le quali più specialmente certi sorbetti di latte che a me piacevano immensamente. Di questi latticini si fa ristretto commercio, ma sono generalmente buonissimi.
Non c'è grande passione in tutto il Regno per l'allevamento del bestiame, eccetto nelle provincie dell'Abruzzo e della Calabria, dove in verità l'allevamento si fa in modo differente; e oltre il Duca di Martina, sono pochissimi i baroni che hanno vere razze di bestiame
[…]