Il brigantaggio pre-unitario e la porticella di Vico Ruggi

Ultima modifica 6 maggio 2020

Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati

Il brigantaggio “politico”, quello che oggi chiameremmo guerriglia o resistenza,  nel corso dell’800 conobbe nel Mezzogiorno d’Italia un primo momento di forte intensità nel periodo preunitario, durante e dopo il decennio francese (1806-1815), quando il regno di Napoli venne conquistato e governato da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, rispettivamente fratello e cognato di Napoleone. In questo periodo gli spodestati Borboni utilizzarono le bande dei briganti per creare focolai di guerriglia e destabilizzare i conquistatori del loro regno.
Mottola fu così teatro delle romanzesche vicende delle bande di due leggendari briganti, ben noti ai massari che erano impegnati nella colonizzazione del territorio boscoso delle murge mottolesi. Si trattava del prete grottagliese Ciro “Papa Giru” Annichiarico e del foggiano Gaetano Meomartino, capo della banda dei Vardarell”.
Placido, l’ultimo duca maschio della dinastia Caracciolo dei duchi di Martina, era stato già dal 1799 un fervente sostenitore dei francesi. Questa sua scelta politica portò nel 1809 a una vera e propria “guerra civile” nel suo feudo di Mottola, quando la “resistenza” filoborbonica fece circolare la notizia che centinaia di banditi calabresi e lucani stavano per invadere la Terra d’Otranto.
L’episodio più importante avvenne nel 1810, quando l’azienda ducale di San Basilio venne assaltata dalla banda filoborbonica di Papa Giru, che in un primo momento era stato un attivo sostenitore del re Giuseppe Bonaparte, ma che aveva cambiato posizione con l’avvento al trono di Gioacchino Murat.
Il prete di Grottaglie era fortemente irritato con i francesi che avevano ordinato di arrestarlo dopo la sua evasione, quando era stato accusato dell’assassinio di un rivale in amore. I suoi uomini devastavano il territorio e ammazzarono così a san Basilio il taverniere Pietro Marra e il fornaio Pietro Gigante, rubando soldi, biancheria, armi e cavalli al fattore e a un guardiano del duca giacobino.
I fratelli Gaetano, Giovanni e Geremia Meomartino Vardarelli, originari di Celenza Val Fortore nel foggiano, iniziarono a operare nella Capitanata come una delle bande armate del movimento popolare sanfedista e filoborbonico, ma ben presto passarono su posizioni filo napoleoniche. In Terra d’Otranto la loro presenza si intensificò tra l’autunno e l’inverno del 1816, in contemporanea con l’attività della banda di Ciro Annichiarico, anch’esso passato su posizioni filofrancesi. La situazione di pericolo ed emergenza che si venne a creare per la attività di queste bande armate spinse le autorità borboniche a sospendere per qualche tempo il servizio postale da Taranto a Bari.
Gli impenetrabili boschi di Mottola erano tra le basi preferite della banda dei briganti dauni. In una lettera dell’8 dicembre 1816 a Francesca del Giudice Caracciolo, vedova del duca Placido, l’agente dei duchi di Martina Antonio Caroli scriveva: “Veneratissima signora duchessa… avrei dovuto condurmi in Motola. I briganti Vardariello già fanno centro delle loro rivoluzioni quel territorio, e si sentono sul proposito fatti funesti. Tutto ciò mi ha impedito portarmi a godere quel bel paese. Subito che i briganti saranno allontanati, o periti, io partirò per Motola e indi avrò l’onore di rassegnarle il risultato delle mie funzioni…
Nella primavera del 1817, i banditi furono protagonisti presso la masseria Chiancarello di uno scontro a fuoco con cittadini di Alberobello, che erano accorsi in aiuto del massaro Donato Perrini, anch’esso di Alberobello. Il conflitto costò ai briganti tre morti e altrettanti feriti, contro un morto e un ferito dei difensori. Tra questi si segnalò particolarmente la moglie del massaro, Teresa Mezzapesa, nativa di Putignano, della quale si disse che maneggiava il moschetto e sparava con la stessa disinvoltura di un brigante.
Nel marzo del 1817 i Vardarelli si accamparono presso la masseria di San Basilio, che rappresentava un sicuro rifugio dopo le consuete incursioni. Il 20 marzo rapirono Francesco Angiulli, giudice di pace di Noci; il giorno dopo, vicino Gioia del Colle, presero come ostaggi alcuni cacciatori, tra cui militari e prelati, e tra di essi il giovane Francesco Saverio Caracciolo, figlio di Domenico, duca di Casamassima e Vietri.
Il 14 aprile 1817, dopo un conflitto a fuoco presso San Basilio, il giovane Caracciolo fu rilasciato in territorio di Castellaneta, a seguito del pagamento dell'elevato riscatto di mille ducati. Col denaro del riscatto del duchino, Gaetano Vardarelli riuscì a stupire l’opinione pubblica e a rafforzare ulteriormente la sua leggenda di “brigante buono”. Infatti i mille ducati furono utilizzati per distribuire soldi ai poveri e addirittura per fondare un ospedale a Policoro.
L’ultima apparizione dei Vardarelli nel territorio mottolese risale al 14 maggio 1817, quando tra la masseria Belvedere e San Basilio vi fu un ulteriore conflitto a fuoco con la colonna mobile del tenente colonnello Del Carretto.
Secondo la tradizione locale, nel centro urbano la presenza dei briganti portò alla temporanea chiusura della purt'cedd, una porta secondaria della città posta al termine del vico Ruggi, che si affaccia con una scalinata sulla attuale via Mazzini, all’epoca chiamata via Fuesso perché in origine era il fossato difensivo della città medievale, che era stato colmato solo nel Seicento.
La piccola porta era stata ricavata nel caratteristico vicoletto probabilmente nel corso dei primi decenni del XVIII secolo, quando le antiche mura medievali cominciarono a subire pesanti interventi di demolizione e di ristrutturazione. Infatti, nello stesso vico Ruggi, all'altezza del civico 12, la iscrizione su pietra calcarea posta sotto una finestra  XPUS NOBISCUM STAT / HOC OPUS FIERI F. DONTANO / SCARANO. ANNO DN. 1714, testimonia la costruzione nel 1714 dell'edificio sull'antico perimetro fortificato, da parte di un sacerdote del Capitolo mottolese, don Donato Antonio Scarano, il primo assistente spirituale della Confraternita della SS. Madonna del Carmelo e del Purgatorio che aveva appena terminato di costruire l’attiguo oratorio della chiesa del Carmine.